Lo scudo di silicio: Taiwan e la dottrina della reciproca distruzione economica
In The Wages of Fear, il film di Clouzot del 1953, quattro disperati devono trasportare nitroglicerina attraverso strade dissestate del Sud America. Il carico è così instabile che un sobbalzo, una frenata brusca, persino vibrazioni eccessive potrebbero farli saltare in aria. Più il viaggio avanza, più diventa chiaro che la vera minaccia non è il fallimento della missione, ma il suo successo: ogni chilometro percorso aumenta la probabilità che qualcosa vada storto.

Taiwan è quel camion carico di nitroglicerina. E noi stiamo tutti seduti sul cassone, convincendoci che finché guidiamo piano, finché restiamo attenti, finché manteniamo l’equilibrio, non esploderemo.
Il problema è che qualcuno sta deliberatamente cercando le buche sulla strada. E noi continuiamo a raccontarci che la fragilità del carico ci proteggerà, quando in realtà è esattamente ciò che ci rende vulnerabili.
Perché la narrativa dello “scudo di silicio”, l’idea che Taiwan sia troppo preziosa per essere conquistata, potrebbe essere il più pericoloso autoinganno geopolitico del XXI secolo. Non è uno scudo. È un esplosivo. E stiamo scoprendo che alcune persone sono disposte a far saltare il camion.
L’ostaggio perfetto (o la trappola perfetta?)
Taiwan Semiconductor Manufacturing Company produce da sola oltre il 90% dei chip più avanzati al mondo, quelli a 3 e 5 nanometri che alimentano tutto, dagli iPhone ai sistemi d’arma, dai data center dell’intelligenza artificiale alle automobili. Questa concentrazione non ha precedenti nella storia industriale moderna. Nemmeno il petrolio saudita, al culmine del suo potere, ha mai rappresentato una quota così dominante di una risorsa così critica.
Ma ecco il punto cruciale: queste fabbriche sono ecosistemi incredibilmente fragili. Uno stabilimento di TSMC richiede elettricità ininterrotta, acqua ultrapura, ambienti controllati al micron, e soprattutto la presenza fisica di migliaia di ingegneri altamente specializzati che hanno trascorso decenni a perfezionare processi così complessi da sfidare la completa documentazione. Un bombardamento, un blackout prolungato, l’evacuazione del personale tecnico, e queste cattedrali della tecnologia diventano gusci vuoti.
Ottimo. Tranne per un dettaglio scomodo: stiamo presumendo che tutti ragionino come noi.
Il calcolo cinese (che forse non capiamo affatto)
La Cina lo sa. Qualsiasi scenario di invasione di Taiwan deve fare i conti con questa realtà: conquistare l’isola significa molto probabilmente distruggere o rendere inutilizzabili i suoi stabilimenti. E senza quelle infrastrutture funzionanti, la Cina si ritroverebbe non solo isolata dalle sanzioni occidentali, ma anche priva della risorsa strategica che rendeva l’operazione attraente in primo luogo.
Bellissima teoria. Peccato che presupponga che per Pechino il valore di Taiwan si misuri esclusivamente in nanometri di silicio.
E se per Xi Jinping distruggere le sedi di TSMC fosse un prezzo accettabile? Anzi, e se fosse addirittura desiderabile? In un colpo solo elimini il vantaggio tecnologico occidentale, paralizzi l’economia globale da cui dipendono i tuoi nemici molto più di quanto dipenda la Cina, e dimostri al mondo che l’Occidente non può proteggere i suoi vassalli. Il fatto che anche tu ne soffra è irrilevante se i tuoi avversari soffrono di più e più a lungo.
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È la logica del “se non posso averlo io, non può averlo nessuno”, portata a scala geopolitica. E funziona magnificamente in una logica autoritaria dove il consenso interno si costruisce sul nazionalismo, non sul PIL pro capite.
Chiamiamola con il suo vero nome: non è “reciproca distruzione economica assicurata”. È un’arma asimmetrica puntata contro l’Occidente, e Taiwan ne è il grilletto.
La data di scadenza (e l’illusione del tempo)
Ma questa protezione ha un limite temporale. E tutti gli attori lo sanno.
Gli Stati Uniti hanno stanziato 52 miliardi di dollari con il CHIPS Act per riportare produzione avanzata sul suolo americano. TSMC sta costruendo sedi in Arizona, anche se con costi triplicati e ritardi significativi. Samsung espande in Texas. Intel riceve sussidi miliardari per recuperare competitività. L’Europa investe nei propri campioni nazionali.
Allo stesso tempo, la Cina sta bruciando decine di miliardi nel tentativo di raggiungere l’autosufficienza nei semiconduttori, con risultati alterni ma progressi innegabili. SMIC ha dimostrato di poter produrre chip a 7nm, anche se con rese inferiori e costi superiori.
Ogni stabilimento che apre fuori Taiwan, ogni punto percentuale di quota di mercato che TSMC perde, ogni progresso cinese nell’autosufficienza erode leggermente lo “scudo di silicio”. Non immediatamente, non drammaticamente, ma inesorabilmente.
Ed è qui che finiamo in fallo. Perché mentre noi misuriamo la sicurezza di Taiwan in termini di “quanto tempo ci resta”, stiamo in realtà inviando a Pechino un messaggio cristallino: agite in fretta, prima che lo scudo svanisca. Stiamo telegrafando la nostra strategia come dilettanti a poker che guardano nervosamente l’orologio.
Peggio ancora: ogni dollaro investito nella diversificazione è un dollaro che ammette pubblicamente quanto siamo vulnerabili. Ogni fonderia costruita in Arizona è una dichiarazione implicita che Taiwan è sacrificabile. Stiamo costruendo le scialuppe di salvataggio a vista di tutti, e ci chiediamo perché la nave sembra sempre più in pericolo.
Lo scudo o la prigione?
Lo scudo di silicio di Taiwan rappresenta una forma di deterrenza straordinariamente efficace ma intrinsecamente temporanea. Ha comprato tempo prezioso, forse un decennio o due, durante il quale la geografia della produzione tecnologica si sta ridisegnando.
Ma come tutte le deterrenze, funziona solo finché tutti gli attori rimangono razionali e concordano sul calcolo dei costi.
O forse è tempo di ammettere che lo “scudo” è sempre stato una prigione. Taiwan non si è protetta diventando indispensabile, si è trasformata in un ostaggio. E gli ostaggi, alla fine, vengono sacrificati quando il prezzo del riscatto diventa troppo alto.
Taiwan ha trasformato la sua vulnerabilità geografica in un vantaggio strategico diventando l’ostaggio più prezioso del mondo. Ma il valore degli ostaggi diminuisce nel momento in cui il sequestratore capisce che nessuno verrà davvero a salvarli.
E quando quel momento arriverà, scopriremo che lo scudo di silicio era fatto di sabbia.